#iorestoacasa camminando sempre
Da giornalista, ho attraversato diverse emergenze. Ci ho camminato dentro, era una condizione imprescindibile per me. Anche quando non mi occupavo più di cronaca, anche quando magari dovevo scrivere un editoriale o un servizio di inchiesta su un episodio o su un fenomeno, dovevo farlo.
Passare dolorosamente nel luogo dove era avvenuto quel fatto, non con spirito morboso, anche perché le ferite, poi, ti rimangono tutte sotto pelle. Per sentire con gli altri, per respirare la comunità, per sforzarsi di essere sinceri in base a quanto raccolto ma senza violarne la sensibilità. Tutte prove, chissà se ci riesci e come te ne accorgi.
Il lavoro giornalistico si è sempre più ritirato dietro smartphone e pc, ma da questa abitudine originaria ho sempre cercato di non staccarmi, perché mi sembrava buona.
Poi arriva il coronavirus e dopo le illusioni iniziali tutto, o meglio molto, si ferma. #iorestoacasa è l’ordine interiorizzato in responsabilità. Il tesserino da giornalista non è il via libera per tutto, ma per lavoro potrei muovermi. Forse dovrei, come altri.
È che non mi sento più, e non solo per la questione fondante della sicurezza, mia e altrui, per il senso della responsabilità. È che mi rendo conto che anche questo è immergersi, camminare dentro. Trovarsi nelle condizioni degli altri, grazie allo smart working che ormai fa parte della mia vita da un pezzo, vuol dire anche fermarsi.
#iorestoacasa e non fa meno male. Perché tu parli più a lungo con le persone, anche con gli interlocutori che credevi di conoscere, e scopri di più su di loro e te stessi. Le giornate diventano ancora più impegnative, non sfibranti tuttavia, o meno di prima.
La sofferenza per chi è abituato a muoversi sempre, con la fatica e l’entusiasmo che ciò comporta, è immensa.
Ogni mattina mi sveglio con la sensazione di dover riporre nel cassetto qualcosa che mi faccia stare meglio, e magari qualcun altro se riesco.
Ogni giorno racconto un pezzo di realtà dalla mia scrivania, che poi è un tavolo deputato ad altro uso.
E se mi occupo prevalentemente di economia (che significa sacrifici, posto di lavoro, persone, famiglie), in questi giorni purtroppo ho dovuto anche affacciarmi su quella che così assurdamente viene definita cronaca. Dicendo addio a un medico che ho intervistato la prima volta trent’anni fa. E cercando di reagire, magari raccontano dell’inesauribile generosità che la sua improvvisa scomparsa ha destato.
Significa che sui social tra le persone che vorrei abbracciare – pesante limite, sì, non poterlo fare – ci sono colleghi e amici di Bergamo. E quando una di loro condivide l’articolo del Washington Post che piange con questa città, questa terra, io riapro il pc .
#iorestoacasa ma il mio spirito, con la sua ansia di capire, con le sue ferite sempre aperte, si muove, più che mai.