La fiera nel tempo
Da Pitti a Milano Unica lo stupore di incontrare e rivivere. E la Milano che verrà con il Salone del Mobile
Tra le privazioni che ho sofferto lo scorso anno maggiormente, ci sono le fiere. Una in particolare: non viverla mi ha tolto un riferimento essenziale e mi riferisco al Salone del Mobile di Milano. Non è solo perché l’ho frequentato tanto in questi anni, in modo assiduo e curioso; faceva ormai parte del calendario di aprile, anzi lo dettava. Entrando tra l’altro in conflitto con un’altra passione, di cui scrivo, dato che era costantemente appiciccato a Vinitaly.
Il senso dell’assenza
Sono una figlia delle fiere. Mio padre ha partecipato a un numero che non so identificare in anni ben precedenti ai miei, in cui spostarsi non era proprio così facile: lui ci andava da protagonista, non da timido narratore, nel comparto meccanotessile.
Sono, dunque, anche una figlia del tessile, eppure non ho fatto fatica ad appassionarmi al mondo del mobile. Alle aziende, alla scuola, alle storie minuscole ed enormi che confluivano in una sola. Che brivido incontrare Libeskind e la sua umiltà, poter trarre linfa unica dalle argomentazioni di Marva Griffin, ma soprattutto incontrare proprio grandi e piccoli per rendersi conto della loro connessione e dunque dell’importanza di ciascuno.
L’anno scorso, uno dei momenti chiave in cui captare la gravità di ciò che ci era piombato addosso, è stato prima l’accordo trovato che mi aveva ridato speranza, poi l’annullamento del Salone di aprile dopo il precipitare della situazione pandemica. Immaginare la fiera vuota e silenziosa in quella settimana dopo tanti anni in cui la vedevo popolarsi del mondo, mi faceva male al cuore: era il senso dell’assenza che si manifestava.
Lo spiraglio è arrivato con la fine d’estate. Quando Milano Unica ha imboccato la via del coraggio e si è svolta a settembre; attorno a me, le resistenze perché io non mi recassi lì ma mi opponevo affermando «È la prima fiera in presenza, non posso raccontarla da un pc». Ci sono due momenti in cui ho sentito attraverso la voce di quell’evento che potevamo venirne fuori.
Il primo, l’arrivo a Rho. Non sapevo cosa aspettarmi, quante persone saremmo state, e temevo poche, pochissime. La fila discreta e distanziata che si ingrossava gradualmente, il percepire quel desiderio di esserci non per mostrarsi bensì per ripartire anche dove i riflettori erano puntati, il badget che diventava un passaporto verso una libertà rinnovata… quanti flash si sono intrecciati quella mattina.
L’altro, quasi inesprimibile. Allo stand di Albini, dopo tutta la prassi anti Covid, ascoltavo con orecchie e sguardo quella cascata di colori. Avevo un unico rimpianto, infranto gioiosamente dopo un po’ da un invito di Stefano Albini: «Se tocca questo tessuto…».
Sono sobbalzata e ho chiesto subito: «Ma posso?».
«Certo, si è igienizzata le mani» mi hanno rassicurata. Allora, si è aperto un mondo, il mio mondo, quello in cui sono cresciuta. Quello dei campionari da accarezzare, le pezze che prendevo e tagliavo per cucire abiti immaginari o che mettevo insieme per una tavolozza rivoluzionaria. Era qualcosa di ancestrale, forse, perché tante mani della mia famiglia e della mia comunità si sono affaccendate ai telai e non solo.
Con i tessuti tra le mani
Il quadrisavolo Tengitt. La bisnonna Maria, cucitrice come la nonna di suo marito Antonio, anche se probabilmente non lo sapeva. Noi, tutti con i tessuti tra le mani: come oggi.
Poi, la pandemia ha rialzato la testa e tutto questo universo aggraziatamente rumoroso si è fermato, ancora. Sì, ci siamo consolati con le fiere digitali e ho ripreso anche con le degustazioni in questa versione: non un ripiego, ma una via per vivere ben oltre la sopravvivenza.
Tuttavia, la felicità è stata ancora una volta al primo sì. Quello scandito da Pitti e più tardi da Milano Unica, il tessile che di nuovo si offriva come apripista. Ho atteso con trepidazione, anche con un po’ di paura, la scelta dell’arredo; la tensione si è sciolta, quando il Salone del Mobile di Milano ha detto a sua volta sì.
Non sarà un’esplosione di primavera, ma un amabile congedo dall’estate. Sarà diverso da ciò che è stato, che scoperta, poiché tutto è diverso.
Del resto, la fiera nel tempo muta, dolcemente o impetuosamente, plasmata dai mercati o sospinta all’improvviso da una pandemia. Ma nel tempo ha la sua ragione d’essere, più ancora che nello spazio forse: anello di congiunzione che cambia aspetto, non ruolo.
Sensazioni in presenza
Allora, puntualizzo dentro di me alcune sensazioni in presenza per pregustare quelle che verranno. All’arrivo a Firenze – sfiorata l’ultima volta nell’estate 2020 come tappa per Siena e percepita così desolata e cristallizzata nell’attesa – , il popolo del tessile che affollava con giudizio la Fortezza e ammirava ogni angolo creativo, dall’esterno agli stand.
I piccoli, orgogliosamente dentro, con tanto sacrificio: «Ma Pitti ci ha dato tanto, ora dobbiamo restituire perché ha bisogno di noi». L’inaugurazione a Palazzo Vecchio, con tanta di quella storia sulle pareti, che non ti verrebbe in mente di temere il futuro senza sentirti un ignavo.
E poi contare i giorni per Rho, ancora, e ritrovare quella Milano Unica che ormai sapeva come scorrere, senza dare spazio alla paura.
Adesso, contare i giorni ancora per il Salone del Mobile, che ha un nuovo presidente, Maria Porro. Non ha quarant’anni e ciascuno di quegli anni ha visto una sua presenza al Salone, fin da bambina accanto al nonno: le radici e la freschezza, ovvero la fiera nel tempo.